01/08/2014

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Gli altri spendono e il Milan no: qualche spiegazione E' la conseguenza di una gestione finanziaria fallimentare della spesa, che deve ritrovare una bussola raziocinante

Il titolo di questo pezzo è così banale da non meritare nemmeno un commento. Alzi la mano chiunque non si sia posto almeno una volta questa domanda negli ultimi anni.
Il problema è complesso e per dare una risposta sensata è necessario ragionare sui numeri e sulle scelte operative del Milan in questi ultimi anni.
Non esiste bravura che non sia accompagnata da fortuna.
E così il Milan, circa 10 anni fa, si è ritrovato una squadra fortissima, unanimemente riconosciuta la migliore d'Europa.
Artefice di quest'impresa Adriano Galliani.
A Instanbul il Milan visse un dramma sportivo di grandi proporzioni ma in quel momento le prospettive del club erano rosee perchè aveva in quel parco giocatori, la più grande risorsa ed il tesoro più prezioso. Gattuso, Pirlo, Seedorf, Kakà, Shevchenko, Nesta, Kaladze, tutti giocatori "monetizzabili". Risultato: nessuna cessione eccellente.
Venne fatto il sacrificio per Gilardino (coperto dall'assegno presidenziale, nonostante un Berlusconi mai troppo convinto dal giocatore) e si pensò che l'ottica gestionale potesse prevalere sull'ottica innovativa. Fu un duplice errore. Certamente in buonafede, certamente dettato da intima convinzione, ma la valenza fu duplice.
Sul campo infatti il Milan non costruì mai la squadra adatta ad esaltare al massimo Kakà. Si scelse col tempo la formula del Ricky seconda punta, posizione nella quale il 22 non era il numero uno.
Sul piano del bilancio invece, pur di trattenere tutti quei campioni, Galliani non esitò a far lievitare negli anni il monteingaggi. Il Milan così, dopo l'esercizio di bilancio 2006 chiuso addirittura in attivo per la non prevista cessione di Sheva, iniziò una serie di passività di bilancio alimentate non dalla spesa per i cartellini dei giocatori, bensì da una serie di rinnovi ai giocatori già in rosa. Ingaggi più alti con scadenze a lungo termine.
Il canto del cigno di quel magnifico gruppo di uomini ancor prima che campioni, diede “la settima”, conquistata ad Atene, una supercoppa europea e il tanto desiderato mondiale per club.
I primi limiti di gestione iniziavano però ad emergere. Il Milan al 31.12.2007, nonostante la vittoria in Champions con conseguente aumento dei ricavi, chiuse l'esercizio con una perdita di 31,7 milioni di euro. Era l'aprile del 2008 e quel Milan si apprestava a non entrare in Champions. A quel punto, c'è il secondo bivio sbagliato della nostra storia.
Il Milan infatti sceglie di spendere, ossia nessuna cessione illustre e aumento del costo degli emolumenti dei giocatori con gli arrivi di Ronaldinho (13 lordi all'anno per due anni, ben 16 nel terzo), Zambrotta (quadriennale da quasi 8 lordi a stagione), Flamini (quadriennale da circa 11 lordi a stagione). Tre giocatori che, da soli, costavano oltre 30 milioni lordi a stagione al club. Costo degli emolumenti che sale, con risultati sul campo buoni ma non ottimi. Il Milan si mantiene in linea di galleggiamento ma non vince.
La squadra è forte ma è costruita male. Kakà per rendere al meglio avrebbe bisogno di un centravanti puro, mentre Dinho per esaltarsi avrebbe bisogno di una squadra più orizzontale.
E' una dicotomia tecnica sulla quale il Milan si incarta. I riflessi sul bilancio sono però inevitabili.
La cessione di Kakà diventa così la soluzione. Tecnica, perchè si risolve il rebus a favore del Gaucho, economica perchè la plusvalenza del Bambino d'oro porta il bilancio quasi in pareggio.
Non è un errore quella cessione, semmai è un errore pensare che quel monteingaggi possa continuare ad essere sostenibile, perchè la plusvalenza di Kakà diede beneficio il primo anno ma non nelle annate successive.
Nel 2009 il Milan ha un costo del personale di 178 milioni di euro, su un fatturato netto (scremato cioè dalle plusvalenze) di 247 milioni. Nel 2010 il costo del personale sale a 192 milioni su un fatturato netto di 207. L'apice però viene toccato nel 2011 dove il costo del personale sale a 206 milioni su un fatturato netto di 226.
In pratica il costo degli stipendi assorbiva il 91% delle entrate del club. Follia finanziaria.
La doppia cessione di Ibra e Thiago, con quei conti, era assolutamente inevitabile. Quella cifra è stata la seconda più alta nella storia della Serie A dopo l'Inter di Mourinho (234 milioni). Non è un caso che anche l'Inter, dopo aver toccato certi picchi, abbia dovuto ridimensionarsi.
Dal 2012 Galliani ha invertito, su ordine della proprietà, la rotta finanziaria e sta operando un risanamento che ha portato il monteingaggi a scendere di oltre 50 milioni di euro lordi in 2 anni.
L'obiettivo del Milan, fino a quando quel mostro a tre teste chiamato monteingaggi non sarà stabilizzato entro una cifra compatibile col fatturato netto, è quello di applicare la vecchia massima di ispirazione liberale: il pareggio di bilancio come sana e corretta gestione di un club.
Non è erroneo l'attuale atteggiamento. E' stato semmai scriteriato e senza senso il precedente modus operandi.
L'equilibrio finanziario però, senza la certezza delle cessioni, diventa chimera, soprattutto in assenza dei ricavi Champions, vera e propria salvezza per il Milan attualmente.
Il dato chiave è il seguente: al 31.12.2013, il Milan spende il 61,3% del proprio fatturato netto (scremato da plusvalenze e capitalizzazione dei costi del vivaio) in stipendi.
Quel valore deve scendere ancora di circa dieci punti percentuali e, nell'anno in cui mancano i ricavi Champions, va ridotta la rosa. Per ogni entrata deve corrispondere un'uscita, non tanto in termini di costo del cartellino quanto di emolumenti. Non è certamente una situazione da sogno ma non è nemmeno la conseguenza del destino cinico e baro. E' semmai la conseguenza di una gestione finanziaria fallimentare nella gestione della spesa, che deve ritrovare una bussola raziocinante.
Il Napoli ha un tesoretto da spendere ogni sessione di mercato, perchè da sempre il club di De Laurentis si amministra in attivo e per loro spendere sul mercato significa ridurre l'utile di bilancio, non certo incrementare una perdita.
Le scelte del Milan in questi ultimi anni sono state penalizzanti. L'autofinanziamento è la strada maestra ma serve pazienza per arrivarci. Invocare l'acquisto da 20 milioni ogni mercato è solo un modo per rimandare di anno in anno la soluzione di un problema strutturale.
Non sarà divertente, né piacevole ma le cose stanno così. Se si aggiunge che, nell'attuale momento, l'azionista di maggioranza non ha la possibilità di spostare risorse sul calcio (vedasi conti Fininvest degli ultimi 3 anni), si comprende come la pazienza sia l'unica arma, se non la più saggia.
So cosa sta pensando il lettore. Che Berlusconi deve vendere il club.
Vi ribalto il problema allora citando un dato chiave. Il Milan, ad oggi, gode di linee di credito a fronte di lettere di “patronage” della controllante Fininvest, per un ammontare di 390 milioni di euro. Siete così sicuri che un nuovo proprietario saprebbe fare meglio nell'attuale momento di crisi e nel sistema calcio italiano?
L'alternativa è credere nell'esistenza di Zio Paperone. E' un'alternativa bellissima. Costa zero, si verifica ogni volta che chiudiamo gli occhi. Ha un solo trascurabile svantaggio: non è reale.

Capitan Uncino


 

01/08/2014
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